Un film. Ancora? – Recensione di Inside Out

Tendenzialmente sono un’avventrice del cinema del sabato pomeriggio.

C’è una certa pace nel farsi una passeggiata dopo pranzo fino alla multisala appena fuori dal centro, comprare un biglietto con largo anticipo rispetto all’orario di proiezione, farsi un giretto nell’attigua libreria e poi ritrovarsi in una sala semideserta per godersi finalmente il film che si stava aspettando di vedere da tempo.

Il cinema della domenica pomeriggio è un mondo completamente diverso. Il cinema della domenica pomeriggio è popolato da da famiglie numerose, di solite accompagnate da almeno un’altra famiglia altrettanto numerosa per una ridente gita alternativa nel dì della festa; oppure da gruppi di ragazzine e ragazzini in età pre-puberale che si allenano in un campo neutro e sicuro alle uscite che faranno con gli amici nel giro di pochi anni.

Se durante il sabato pomeriggio il cinema è un paradiso, la domenica pomeriggio è da considerarsi, se non inferno, quantomeno un limbo piuttosto caotico, oppure un purgatorio un po’ infido, in stile dantesco. La pace, tuttavia, torna sempre in sala e un film della Disney è una garanzia, una sorta di incantesimo scagliato dal buon vecchio Walt in persona direttamente dall’aldilà per far sì che anche il bambino più vivace e chiacchierone rimanga muto, attonito di fronte alle immagini fantastiche e alle avventure mirabolanti che gli verranno proiettate davanti. E, fortunatamente, il mio programma domenicale pomeridiano comprendeva proprio la visione di un film di animazione che aveva catturato la mia attenzione sin da quando ne era stata annunciata la produzione dalla Pixar: Inside Out. Il caos è continuato a farla da padrone durante gli spot e le preview che precedono la proiezione (Proiezione del trailer dell’esclusiva trasmissione di Masha e Orso al cinema. Giubilio dei piccoli umani. Disperazione totale degli adulti dotati di prole. “Non possiamo andare a vederlo: siamo in montagna!” annuncia gioviale un padre. Gli altri adulti dotati di prole gli lanciano maledizioni mentalmente), ma subito dopo il trailer dell’annunciato e già criticato PAN (da amante del libro di Berrie non posso che aspettare l’uscita del film a novembre con una certa emozione) il famosissimo logo della lampadina appare e finalmente le luci si abbassano: la magia ha funzionato anche questa volta, silenzio in sala.

Come ogni film Disney, il film è preceduto da un cortometraggio, in questo caso “Lava”. La storia è romantica e cantata (la versione originale della canzone è dello stessa regista e sceneggiatore James Ford Murphy) splendidamente nella versione italiana da Giovanni Caccamo che presta la sua voce a Uku, un simpatico vulcano hawaiiano il cui unico grande sogno è quello di trovare l’amore, impresa che risulta quanto meno difficoltosa quando si è parte di un’isola in mezzo all’oceano. I secoli però passano, e per il romantico protagonista la possibilità che il suo sogno si possa realizzare sembra sparire poco a poco così come sta facendo lui, destinano sprofondare in mare. Ciò che Uku ignora, però, è che proprio in fondo all’oceano c’è Lele (che simpaticoni, alla Pixar) che da tempo immemore sogna di incontrare il dolce vulcano canterino e, proprio ringalluzzita dalla sua voce melodiosa, riesce a riemergere, eruttando allegra e ansiosa di incontrare l’amato. Peccato però che il povero Uku sia ormai quasi completamente sprofondato e incapace di dichiarare propriamente il proprio amore per quella che ha già capito essere la sua dolce metà. Tragedia. La Pixar sembra come sempre decisa a frantumarti un po’ il cuore prima di darti la possibilità di goderti un bel finale allegro. Che comunque alla fine arriva. Infatti la dolce Lele si ricorda perfettamente la tenera serenata che gli ha cantato per secoli il tenero vulcano ed è proprio la sua voce a richiamare in superficie Uku che, una volta riemerso, si trova proprio fianco a fianco a Lele (aka Malika Ayane, che voce!). Il duoetto è garantito per l’eternità, l’ammmmmore trionfa. Dio, come mi prendono queste storielle nonostante l’assurda semplicità della loro trama. In ogni caso, il corto è stato piacevolissimo da vedere, non mi fermo nemmeno a commentare le immagini, fantastiche e che sembrano quasi reali nel modo in cui riescono a renderti quasi presente sulla scena, e magari potessi dire di essermi trastullata almeno una volta nella vita sulla sabbia bianca di una splendida isola tropicale. Direi che riuscire ad ottenere un grado così alto di apprezzamento per soli sette minuti di proiezione è un risultato che in pochi possono dire di raggiungere.

Giusto il tempo perché il motivo più che orecchiabile di Lava mi entri in testa (non scherzo, credo sia marchiato a fuoco nel mio cervello. Me lo sto canticchiando fra me e me anche adesso) e il motivo per cui siamo tutti qui compare sugli schermi. Dopo essere entrati nella mente dei giocattoli, degli insetti, dei mostri del ripostiglio, delle macchine, dei pesci e dei supereroi, con Inside Out la Pixar ha deciso di spingersi ancora più oltre: guardare cosa passa nella testa delle emozioni. La premessa è allettante e così anche le prime scene in cui, dal momento dalla nascita della protagonista, la piccola Riley, vengono alla luce prima Gioia e Tristezza, poi con la crescita e vivendo situazioni sempre nuove, anche Paura, Rabbia e Disgusto. Il focus della storia, comunque, è Gioia, la prima esuberante emozione ad essersi manifestata nella testa di Riley e per questo convinta di essere la prima e sola ad essere in grado di capire la ragazzina e di essere la sola chiave alla sua felicità. Gioia è impulsiva, un po’ prepotente e decisamente…gioiosa. Convinta di essere il sentimento più importante per il benessere di Riley, Gioia ha da sempre preso il comando, dando istruzioni ai suoi colleghi su come agire. Da ciò è però esclusa Tristezza, che Gioia tende a tenere a debita distanza dai comandi delle emozioni inventandosi compiti apparentemente inutili come la lettura degli immensi manuali sul funzionamento della mente. Ma che valore ha la gioia senza sapere che cos’è la tristezza? Questa è la domanda intrinseca, che si scopre man mano che la storia avanza, proprio quando le due emozioni, da sempre agli antipodi l’una dall’altra, dovranno affrontare un lungo viaggio dall’archivio dei ricordi lungo i molteplici meandri della mente di Riley per poter tornare ad occuparsi propriamente della giovane nel centro di comando delle emozioni.

Come mi capita spesso con i film della Pixar, anche questo mi è piaciuto molto, ma soprattutto mi sono piaciuti moltissimo diversi espedienti inventati dagli sceneggiatori per potere spiegare in un modo divertente e per niente banale che cosa ci passa nella testa. Come il fatto che durante la nostra vita ci si presentano davanti situazioni particolari che diventeranno poi ricordi indelebili capaci di formare il nostro carattere. O come il fatto che il vero motivo per cui ci ricordiamo i più assurdi jingle degli spot televisivi è per via di simpatici mostriciattoli addetti alla pulizia degli archivi dei ricordi: a che serve tenere a mente centinaia di numeri di telefono o i nomi dei presidenti americani? Molto meglio avere sempre a portata di mano un motivetto orecchiabile da poter spedire fra i pensieri di tanto in tanto. La fabbrica dei sogni diventa poi il set cinematografico più caotico della storia, dove la star principale è un unicorno un po’ snob, la sede del pensiero astratto un luogo un po’ troppo complicato da cui stare alla larga e Immagilandia il posto dove le fantasticherie più assurde diventano realtà.

Insomma, Inside Out è un film di animazione che vale la pena vedere, soprattutto a noi più grandicelli, capaci di apprezzare a pieno tutte quelle chicche inserite apposta per noi. E se ho apprezzato parecchie cose del film, come la carrellata finale che permette di sbirciare nella testa di diversi personaggi con cui Riley si è trovata a interagire in un modo o nell’altro nel corso della storia, c’è anche una pecca che mi ha lasciato con l’amaro in bocca. Dotati di una nuovissima console di comando in cui tutte le nostre amate emozioni possono sbizzarrirsi al meglio, i personaggi si ritrovano davanti un enorme, pericoloso allarme non ancora attivato che legge: pubertà. Ora, io capisco che lì, alla Pixar, non pensano solo a fabbricare sogni, ma anche a fabbricare dei bei e fumanti soldini pronti ad arricchire sempre più una delle più grandi case di produzione del mondo, ma è davvero necessario tenersi già pronti l’intro per un eventuale prequel? Abbiamo davvero bisogno di un Inside Out 2? Lo ammetto, quando ero piccola avere avuto l’occasione di poter vedere il seguito del Re Leone mi aveva reso la bambina più felice della Terra, ma le storie nuove riescono a sorprendere come poco altro riesce a fare, e chi meglio può creare mondi fantastici se non la Disney e i suoi “minion”?

A parte l’amaro in bocca per non aver potuto vedere la continuazione della storia di RIley, magari una bella chiusura del cerchio fino alla nascita di un eventuale figlio, devo dire che sono più che soddisfatta della visione di questo film. Ora però mi domando? Quali nuovi mondi vorrà esplorare la Pixar dopo aver sondato le emozioni delle emozioni?

G.

Tristezza. Ancora?

Tendenzialmente io non sono una persona solare. Lo ammetto, il solo termine mi fa accapponare la pelle, senza parlare del fatto che ultimamente sembra essere sempre più inflazionato e moltissime persone lo usano per aggiungere una nota “originale” alla descrizione della propria personalità, come se utilizzare quell’aggettivo potesse rendere improvvisamente qualsiasi persona un magnifico fiocco di neve, speciale e unico nel suo genere. Appurata, quindi, la mia totale mancanza di solarità, c’è anche da dire che non appartengo nemmeno alla categoria delle persone ombrose. Ciò mi colloca in un certo senso in mezzo, nel limbo delle persone anonime a livello descrittivo, in grado di passare da un lato all’altro della cartina tornasole a seconda della situazione in cui si trova, del tempo atmosferico e, perché no, anche dalla posizione in cui Paolo Fox ha messo il nostro segno zodiacale nella sua classifica settimanale.

Ultimamente, però, nonostante gli sforzi del buon Fox che ogni settimana mette l’Ariete nella parte medio-alta della sua classifica, sto vivendo diverse giornate buie. Credo che sia un po’ la caratteristica di questo periodo della mia vita, un periodo per niente felice e sfortunatamente difficile in cui, nonostante io cerchi in ogni modo di risollevare il mio morale con le tipiche frasi dell’auto-aiuto che inneggiano al potere supremo della forza di volontà, o puntando su misere opere di auto-convincimento che dovrebbero farmi capire che la mia vita non è poi così male come credo e che dovrei smetterla di comportarmi come la sfigatissima protagonista di un melodramma, mi alzo spesso alla mattina avvolta in un alone di tristezza che difficilmente riesco a scacciare. Cosa fare, quindi? Come provare ad uscire da questo odioso tunnel di umore negativo che, continuando a sommarsi a se stesso, non fa altro che peggiorare ogni giorno che passa?

Questa mattina mentre lavavo i denti (uno dei momenti della giornata in cui i miei neuroni iniziano a lavorare come formiche impazzite) ho stilato una breve lista di tutte quelle cose che solitamente mi aiutano durante i miei frequenti “black days”:

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Lunedì. Ancora?

[Ok, è il mio secondo post e già mi sto rendendo nervosa da sola aggiungendo, quasi come desinenza fissa, “Ancora?” alla fine del titolo. Volevo solo darmi un senso di identità e una parvenza di continuità. Passerà presto, lo giuro.]

Domani è lunedì.

“Ugh!”, sarebbe il primo pensiero, ma la verità è che io ho da sempre avuto un rapporto ambivalente con il primo giorno della settimana, o con gli inizi in generale. Gli inizi mi piacciono, chi può dire altrimenti? Mille possibilità pronte da essere scoperte, novità da esplorare con attenzione, oppure decisioni da prendere alla cieca lasciando che facciano scorrere lungo la spina dorsale quel brivido che si prova quando l’incertezza ci lascia un po’ in sospeso, incapaci di prevedere come continuerà la nostra storia. Quindi, in un certo senso, io amo i lunedì. E anche i “Gennaio”, a dirla tutta. (E a volte anche i “Settembre”, che si camuffano da Gennaio e si strappano con prepotenza un pezzettino del mio cuore).

Qual è il problema?, viene quindi da domandarsi. Il problema è che io ho paura dei lunedì. Io faccio progetti, scrivo lunghi elenchi e mi convinco che sarò in grado di realizzarli, tutti, e di metterli in atto subito, immediatamente, senza dover occuparmi troppo degli immancabili intoppi che caratterizzano la vita quotidiana anche dell’individuo più ossessivo compulsivo del pianeta.  Io amo gli inizi ma non le mezze misure e quindi quando mi ritrovo a dover affrontare i limiti propri di qualsiasi essere umano mi ritrovo scoraggiata, mi rendo conto che no, io non sono una supereroina della Marvel e mai lo sarò, e quindi non riuscirò mai a diventare una yogini, una maratoneta, una fluente parlatrice di russo/cinese/spagnolo/coreano/sanscrito nel giro di un paio di giorni. Quando mi metto da sola di fronte ai miei limiti tendo a scoraggiarmi, a dirmi che probabilmente sono io a non essere tagliata per determinate attività, che probabilmente io non sono e non sarò mai abbastanza, e quindi perché prendersi la briga di provare a fare qualcosa di nuovo e potenzialmente spaventoso quando posso rimanere nel mio guscio, al sicuro, dove nessuno verrà mai a disturbarmi e a dirmi che era meglio se avessi nemmeno provato a farlo, quel salto nel vuoto che all’inizio mi sembrava tanto una buona idea?

Domani è lunedì ed io ho dei progetti e anche, lo ammetto, un po’ di paura.

Un inizio. Ancora?

Non credevo che lo avrei davvero fatto.

Io sono così, passo notti per il 50% insonni e interminabili mezz’ore sotto l’acqua bollente della doccia, e in questi momenti di debolezza mi convinco che posso fare di tutto. Sul serio. Con ancora l’asciugamano avvolto intorno ai capelli aggrovigliati e pieni di umidità annuncio a chiunque sia in casa e voglia ascoltarmi che ho pensato ad un nuovo modo innovativo per riorganizzare i mobili del salotto/ la disposizione dei cibi nella dispensa/ l’ordine di distribuzione dei libri sugli scaffali. Il più delle volte queste idee che paiono schizzarmi nella testa a velocità supersonica, cozzandosi l’una contro l’altra come invasati autolesionisti alla guida di autoscontro, se ne vanno nel giro di un paio d’ore, dissolvendosi con la stessa facilità con cui si erano formate.

Quindi, il fatto che io abbia deciso di aprire un blog durante una doccia troppo lunga, ormai mesi fa, e che questa stessa idea, invece di vaporizzarsi e andarsi a riunire all’atmosfera come hanno fatto e faranno poi la maggior parte delle sue meno fortunate sorelle, sia non solo sopravvissuta, ma mi abbia spinto a pensare piuttosto concretamente a questo progetto, a collegarmi ad un sito apposito e a portare veramente a termine un obiettivo che mi ero prefissata, ha in un certo senso dell’incredibile. [Sì, lo so che al mondo c’è gente che scala montagne innevate a mani nude e che io ho solo cliccato qualche tasto su una tastiera. Sssh, lasciatemi crogiolare nella mia personale soddisfazione.]

La vera domanda ora è questa: che me ne faccio io di un blog? Ok, mi piace scrivere, e questo sarebbe stato il motivo principale per cui ho deciso di ritagliarmi una fettina di web tutta per me. La verità, però, è che non è che io abbia particolari abilità o sia particolarmente esperta in molto. In particolare, questo non portà mai diventare un blog dedicato alla moda considerando che, nonostante io adori pinnare outfit meravigliosi e super fashion su Pinterest [più che un sito, una droga], la maggior parte delle volte mi vesto in modo random, nel senso che dopo aver passato dieci minuti in contemplazione dell’armadio e dei suoi contenuti, di solito sbotto un “Al diavolo!” e arraffo i primi capi che mi capitano fra le mani. Nemmeno potrei scrivere di viaggi poiché, sigh e sob, per  svariati motivi questa passione latente non posso al momento coltivarla. Di che cosa scriverò, quindi? Boh. Non ne ho idea. Ma l’importante è fare il primo passo, giusto?

G.